I mezzi di informazione (e non solo) si affidano sempre più alla visualizzazione dei dati per informare lettori e lettrici in modo più chiaro, immediato e – talvolta – piacevole. Tra i soci di Logon abbiamo un esperto di questo settore, Matteo Moretti, Professore Associato presso il Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica dell’Università degli Studi di Sassari e guest-professor presso MADD il Master in Data Design dell’Elisava di Barcellona. Matteo è co-fondatore di Sheldon.studio, dove esplora le diverse forme del giornalismo visivo e del design sociale, da una prospettiva basata sull’uso dei dati. E proprio su questi argomenti lo abbiamo” interrogato” in questa intervista.
Durante la pandemia tutti, volenti o nolenti, siamo stati quotidianamente esposti alla fruizione di grafici, statistiche, curve e bollettini epidemiologici. La qualità di queste informazioni non era sempre all’altezza, ma l’attenzione per i dati era diventata una costante. Questa attenzione per i dati si è mantenuta alta anche post-covid?
I dati sono un costrutto culturale attraverso il quale diamo misura e forma ai fenomeni che ci circondano. Nella narrazione mediatica si ricorre ai dati, spesso per creare suggestioni, piuttosto che informare. Dal conteggio quotidiano degli sbarchi, siamo passati a quello degli infetti, per poi tornare sugli sbarchi. Si potrebbe anche parlare di come il clima si stia surriscaldando, o della crescita dell’astensionismo elettorale, o dell’ateismo… è solo una questione di agenda setting, ovvero di selezione dei temi più rilevanti che andranno a formare il dibattito pubblico.
Come sono cambiati gli obiettivi della dataviz (visualizzazione di dati) da quanto è nata ad oggi?
Visualizzare i dati permette di facilitare l’esplorazione e l’interpretazione di grandi masse di numeri, così come ne supporta un’interpretazione rispetto a un’altra. Le prime forme di visualizzazione, quelle che hanno dato vita ai grafici che siamo abituati a consultare, risalgono a metà dell’800. Si tratta di visualizzazioni realizzate da scienziati, rivolte a tavoli decisionali, a un pubblico ristretto e altamente istruito. È intorno alla fine della prima guerra mondiale che questo patrimonio viene democratizzato, dando alla visualizzazione di dati una funzione anche informativa, educativa, e non solo analitica.
Il giornalismo ha sempre attinto alle statistiche e all’uso dei dati, ma è solo negli anni recenti che ha preso vita il termine data journalism per indicare quelle forme di racconto che si basano sull’analisi di grandi quantità di dati, machine-readable. Si tratta di forme ibride, in cui spesso i giornalisti detengono competenze di analisi e statistica, così come di data visualization, oppure sono portate avanti da gruppi di lavori interdisciplinari.
Se nel passato la dataviz era comunque una possibile forma di narrazione, ora è ovunque. Basta osservare ad esempio la schermata dei nostri smartphone per capire quanto la dataviz sia parte della nostra quotidianità, a partire dall’indicatore di carica, oppure dalla copertura di rete e wifi, fino alle app di fitness o salute.
Quali aspetti del design aiutano realmente a capire i dati?
I dati sono un’astrazione, un’approssimazione di un fenomeno complesso. Consideriamo ad esempio il cambiamento climatico, che cresce anche grazie all’aumento della popolazione, della cementificazione, della deforestazione, dell’inquinamento, degli allevamenti intensivi, così anche come da fattori naturali. Sono diversi i livelli che contribuiscono all’aumento della temperatura, che si traduce in un singolo numero.
Una buona visualizzazione può aiutare a dipanare quella complessità che costruisce il numero, o meglio, a raccontare la complessità antistante o legata all’impatto che quel numero avrà sulla nostra quotidianità e sul futuro del pianeta.
Raccontare implica prendere decisioni, scegliere su cosa incentrare la narrazione, e soprattutto valutare quali parti del fenomeno raccontato andranno tagliate. Si tratta di mediare, selezionando gli elementi che sono funzionali al racconto e alla facilitazione della comprensione di fenomeni apparentemente distanti dalla nostra quotidianità.
Un esempio di buon progetto? Dust.zone (staubmarke) di Dietmar Offenhuber. Si tratta di un intervento situato in diverse zone di Francoforte mirato al racconto dell’inquinamento atmosferico, invisibile all’occhio umano, se non attraverso dei numeri. L’espediente narrativo si basa su quelle che si chiamano visualizzazioni autografiche, che enfatizzano le tracce, le impronte, trasformandole in visualizzazioni, come ad esempio i classici cerchi di un tronco, che indicano l’età dell’albero. Grazie a un getto d’acqua ad alta pressione, è stata rimossa la patina di sporcizia su alcune facciate dei palazzi, mostrandone il colore originario, e rivelando per contrasto il contributo dell’inquinamento. Sempre sulla facciata, è stato impresso l’url della piattaforma dove poter esplorare digitalmente e in maniera più approfondita i dati sull’inquinamento.
Cosa succede quando creatività, estetica ed efficacia comunicativa entrano in conflitto? Chi ha la priorità per te? E in giro cosa vedi?
“In giro” si vede di tutto, e onestamente è difficile dare un giudizio. Servirebbe conoscere le premesse progettuali, quali sono stati gli obblighi, le restrizioni, e via così, per poter capire come il processo si sia compiuto. Non saprei dire chi ha la meglio. Come esseri umani ci circondiamo di oggetti e artefatti specificatamente perché assolvono una funzione precisa, e la assolvono in maniera impeccabile, altre volte acquistiamo oggetti solamente per la loro valenza estetica… che paradossalmente può anche essere la loro funzione. Non so se a voi sia mai capitato di avere tra le posate, ad esempio, il coltello brutto che taglia, e quello bello e basta. Li teniamo entrambi, ognuno riservato a un momento specifico.
Partendo da questa metafora, ci sono progetti di dataviz altamente estetici, formalmente impeccabili, dallo scarso potere informativo, ma dal forte impatto visivo, che probabilmente hanno il dono di poter colpire, incuriosire più persone, rispetto a progetti meno seducenti, ma più informativi.
Dataviz online, social, su carta.. dinamiche e prodotti diversi o cambia solo il mezzo?
Mondi completamente diversi. Sia dal punto di vista della produzione che del consumo.
Il digitale limita il progetto alla dimensione dello schermo, che varia di grandezza in base al device dei lettori; allo stesso tempo può avvalersi di interattività, suono e movimento. Dal punto di vista della fruizione, i lettori online sono sovrastimolati: un progetto deve combattere con notifiche, messaggi, altri post, ecc. sulla carta lo spazio è definito, il progetto è statico… allo stesso tempo, chi legge è meno sovrastimolato e probabilmente dedicherà maggiore tempo e attenzione a un racconto cartaceo.
Ci sono dati più difficili da rappresentare?
Sì, i dati qualitativi, come i sentimenti, le emozioni, le percezioni, le incertezze.
Quali sono alcuni degli errori (e modi di “barare”) più comuni quando si rappresentano i dati?
Alberto Cairo ha scritto un intero libro a riguardo, gli errori possono essere involontari, determinati da ingenuità progettuali o limitazioni dovute alla natura dei dati, quanto intenzionali, ovvero messi in atto per suggerire sentimenti diversi. Un classico esempio avviene sul racconto del clima, avvalendosi magari di fonti attendibili come quelle dell’IPCC, ma isolando il grafico nel solo intervallo in cui torna utile al racconto. Oppure tagliando l’asse Y, così da esasperare le differenze che in realtà sono marginali.
Raccontaci un tuo esempio vincente di dataviz
“Vincente” è esagerato 🙂 Ci sono diversi progetti che per aspetti differenti, sono stati importanti, a mio avviso, nel dibattito sulla dataviz. Direi Mapping Diversity, progettato per l’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, per aver contribuito a raccontare in maniera più accessibile il divario di genere nella toponomastica.
Analogamente, penso che il progetto della Data Room per il Festival internazionale di architettura Seed, abbia contribuito al design delle dashboard del futuro. Infine, un progetto al quale sono molto legato, è quello di BlurM3Not, che ha re-immaginato il concetto di data gamification, ibridando con nuovi approcci partecipativi che connettono mondo fisico e digitale.