Informazione di guerra, guerra della disinformazione

A cura di Antonella Vicini

Novembre 20, 2023

Informazione di guerra, guerra alla disinformazione - Logon odv

La parola guerra è spesso associata al concetto di informazione e al giornalismo, forse perché la propaganda è uno degli strumenti chiave durante i conflitti. Una vera e propria parte in campo che ha il potere di capovolgere o dare una direzione alle sorti dei conflitti.
Si dà ormai per certo – pur non avendone un reale riscontro – che le immagini delle bare dei soldati americani avvolte dalla bandiera a stelle e strisce in arrivo dal Vietnam ebbero un effetto determinante sull’opinione pubblica e poi sulla politica statunitense. Così come pure le cronache di Walter Cronkite per la CBS, accompagnate dalla sua opinione sul conflitto, ebbero l’effetto di aprire gli occhi su una guerra che era ben lontana dalla vittoria sui comunisti o dalla pacificazione e di diffondere mainstream un sentimento contrario alla guerra.
L’informazione è un’arma potente in guerra e lo sapevano anche gli antichi tanto che si attribuisce a Eschilo, il drammaturgo greco del V secolo avanti Cristo, la frase – rimbalzata poi nel corso dei secoli, con varie declinazioni che non ne hanno mutato il senso – “la prima vittima della guerra è la verità” (ma questa stessa affermazione potrebbe essere una fake news, visto che secondo altri fonti fu il senatore Hiram Warren Johnson a pronunciarla nel 1917). È piuttosto certo però che fu Winston Churchill a ricordare che “In tempi di guerra la verità è così preziosa che deve sempre essere protetta da una cortina di bugie”.
Ben prima dei social, quindi, questo era un tema su cui riflettere. Di propaganda in tempo di guerra si può dire che si è cominciato a parlare in modo più strutturato dalla Grande Guerra, passando per la Guerra Civile Spagnola (la prima che divenne un fenomeno mediatico globale) e poi per la Seconda Guerra Mondiale; il tema della propaganda è stato centrale nella nascita dei totalitarismi che coincidono anche con l’inizio degli studi sulla comunicazione di massa.

Psyop e information warfare

Col tempo gli strumenti della propaganda sono diventati più raffinati, pervasivi, tecnologici e difficilmente riconoscibili.
Pensiamo alle Psyop.
Le operazioni psicologiche che mirano alla conquista delle menti si attuano non solo sul campo di battaglia, ma anche fra la società civile. Il generale Sun Tzu – la cui “Arte della guerra” è stata per secoli la Bibbia dei militari – affermava che “il massimo dell’abilità consiste nel piegare la resistenza del nemico senza combattere”. Conquistare le menti è quello che fa oggi una propaganda sempre più ricercata ed efficace che arriva ad utilizzare social, photoshop, deep fake per offrire agli utenti informazioni manipolate o parziali.
L’information warfare è una vera e propria tattica di natura offensiva o difensiva impiegata all’interno di strategie belliche (convenzionali e non), in tempo di pace ma anche in tempo di guerra, che prevede la militarizzazione dell’infosfera per scopi diversivi, ingannevoli, propagandistici o securitari. Le diverse narrazioni sono l’elemento centrale.
Secondo la definizione che ne dà la NATO, “la guerra dell’informazione non è un fenomeno nuovo, ma contiene elementi innovativi come effetto dello sviluppo tecnologico, che si traduce in una diffusione delle informazioni più rapida e su scala più ampia”.
Non è un fenomeno nuovo, è vero, ma possiamo dire che dal febbraio 2022, con l’aggressione russa in Ucraina, sta vivendo una nuova stagione.
L’allarme in questa direzione ( sulla massive digital misinformation) era stato lanciato già nel 2013 dal World Economic Forum.
Nel 2018, inoltre, Facebook aveva puntato l’attenzione sul ‘coordinated inauthentic behavior‘ per definire quelle reti di account caratterizzati da falsa identità o da altri elementi non autentici (origine, finalità o entità che rappresentano) che lavorano in modo coordinato intervenendo sulla viralità del processo di diffusione delle informazioni. Questa pratica ingannevole è stata inserita da Meta tra le principali minacce alla sicurezza da monitorare sulle sue piattaforme studiando azioni di contrasto, bannando o eliminando gli account sospetti.

Informazioni in tempo reale e disintermediazione: il caso delle Primavere Arabe

È un dato di fatto che oggi grazie ai social network le informazioni giungano in tempo reale e senza mediazione con effetti che si sono iniziati a misurare solo negli ultimi anni. E pensare che il primo reporter di guerra nella storia del giornalismo, William Russell, doveva attendere un paio di settimane per vedere pubblicate le sue cronache della guerra di Crimea e così i lettori.
Esemplare da questo punto di vista sono state le Primavere Arabe che per la prima volta hanno aperto una finestra in diretta sugli eventi che stavano accadendo prima in Tunisia, poi in Egitto e Siria grazie ai contenuti postati dagli utenti. Nel 2009 ci avevano provato già i giovani iraniani dell’Onda Verde subito dopo la rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad, ma il caso della Repubblica Islamica è a sé perché lì la censura funziona a monte e si attua bloccando direttamente internet e impedendo – o rallentando – la fuoriuscita delle informazioni.
Le Primavere Arabe rappresentano un punto di non ritorno dal punto di vista giornalistico, soprattutto per chi si occupa di esteri. I social network hanno avuto, infatti, la capacità di testimoniare hic et nunc quello che stava accadendo in un momento in cui nessuno si sarebbe aspettato eventi così epocali. E un po’ per necessità del momento, un po’ per comodità, le redazioni (soprattutto in Italia) hanno capito che sarebbe bastato saccheggiare i contenuti gratuiti su Facebook e Twitter dei citizen journalist per trovare le informazioni e cucirci su un pezzo. L’apoteosi della disintermediazione, avallata e sfruttata dalla stampa tradizionale.
Ovviamente la disintermediazione in questo frangente porta alle solite conseguenze: mancanza di controllo delle fonti, diluvio di informazioni, potenziale inquinamento delle sorgenti.
Col senno di poi, si sta capendo che il ruolo di chi osserva, analizza e filtra i fatti serve ancora, anzi più che mai in un mare di informazioni senza controllo in cui è difficile districarsi. Ma questo è un altro discorso.
I social non sono però solo i luoghi della disintermediazione, qui trovano ormai albergo anche account ufficiali di ministeri, governi, presidenti, vertici militari, ayatollah. Oggi tutto questo è più che ovvio, ma anche solo 15 anni fa no.
Fra le pietre miliari della storia del nuovo giornalismo e nella storia dell’informazione in tempi di guerra si può annoverare, ad esempio, l’annuncio da parte dell’Israel Defense Force dell’operazione Pillar of Defense su Gaza nel 2012: 140 caratteri per raccontare l’uccisione di Ahmed Al-Jaabari, capo militare di Hamas, mentre percorreva una strada di Gaza City.
Non c’è più bisogno di conferenza stampa o altri canali ufficiali: la guerra si annuncia con un tweet.
Un mese dopo anche il Papa avrebbe aperto il suo canale ufficiale.

La guerra in Ucraina va in onda su TikTok

Dalle Primavere Arabe in poi un ulteriore salto di qualità nell’evoluzione dell’informazione di guerra è stato fatto con la guerra in Ucraina. In questo caso, come evidenzia anche il New Yorker, TikTok è divenuto la finestra sia sulla front line, grazie ai racconti dei soldati ucraini chiamati a combattere, sia sulla vita dei civili che hanno raccontato la distruzione operata dagli attacchi russi. Anche in Italia la stampa ha ribattezzato il fenomeno “la prima guerra su TikTok”.
Particolarmente attivi sono gli account di militari, alcuni del reparto droni, che rappresentano un occhio sul campo di battaglia con riprese dall’alto che offrono punti di vista ampi e il più possibile asettici, postando minuti di guerra con soldati, persone vere, realmente ferite o morte.
Senza filtri e mediazioni tutto arriva dritto come un pugno. È vero che l’effetto straniante tipico dell’overdose è dietro l’angolo, ma è altrettanto vero il forte impatto emotivo.
E come abbiamo già visto l’emotività è un driver importantissimo per la polarizzazione e per la diffusione di false informazioni. C’è da dire, poi, che sulla Guerra in Ucraina ha giocato molto anche il fatto che si trattasse di un tema già di per sé polarizzante che tirava in ballo un tipo di scenario dicotomico post Guerra Fredda.

Il conflitto israelo-palestinese: esiste qualcosa di più polarizzante?

Quanto accaduto lo scorso 7 ottobre in Israele e nella Striscia di Gaza ha riproposto dinamiche simili.
A rafforzare questa considerazione c’è la consapevolezza che la questione israelo-palestinese è probabilmente la madre di tutte le polarizzazioni. Non esiste forse altro tema in grado di dividere in modo così netto l’opinione pubblica in due schieramenti e questo naturalmente ben prima della nascita dei social network e del trasferimento dell’informazione sul web.

Se consideriamo che un tema polarizzante e polarizzato è stato masticato, mal digerito e raccontato e ‘massificato’ da milioni di utenti sui social nel giro di pochi giorni, si comprende bene il diluvio di informazioni, disinformazione e odio che sta transitando sul web da più di un mese.
Uno dei primi, o comunque, uno dei più noti a cadere nel tranello è stato (chissà perché non stupisce) Elon Musk che domenica 8 ottobre ha postato: “For following the war in real-time, @WarMonitors & @sentdefender are good,”.
In 3 ore 11 milioni di utenti lo hanno letto. Peccato che si trattasse di account che in passato hanno manifestato tendenze antiebraiche e hanno diffuso informazioni inesatte.

Nei giorni successivi allo scoppio della nuova guerra fra Israele e Hamas, il Center for an Informed Public della University of Washington ha pubblicato i risultati di una ricerca sulle tendenze degli utenti – dal titolo News Elites  – sottolineando come gran parte dei contenuti in lingua inglese su X sul conflitto sono stati veicolati da soli 7 account (Visegrád 24, Mario Nawfal, OSINTdefender, The Spectator Index, War Monitor, Collin Rugg, Censored Men) che hanno accumulato complessivamente 1,6 miliardi di visualizzazioni di tweet in tre giorni.
Ricordiamo che X non attua policy di moderazione sui contenuti e che le spunte blu che un tempo erano indice di credibilità degli account sono ora a pagamento.
Da notare che uno degli account è War Monitor, un altro si presenta come informazione alternativa, un altro ancora come ‘no echo chamber’, ‘no bias’ – come se poi questo fosse possibile sui social.
Il Center for an Informed Public ha rilevato che questi siti hanno meno abbonati, ma più visualizzazioni dei siti di informazione tradizionale e che utilizzano frequentemente anche video e immagini, presentate in modo emotivo.
Non stupiscono però queste dinamiche perché è proprio quando scatta l’emotività che scatta il pensiero veloce, che intervengono i bias cognitivi e che la polarizzazione è dietro l’angolo. Figuriamoci quando si parla di temi come la guerra e come la questione israelo-palestinese.
Lampanti esempi di disinformazione provengono da entrambe le parti in causa.
La rete è piena di puntuali fact checking che hanno svelato i vari inghippi, ma solo quando il danno era stato fatto. Sappiamo bene, infatti, che il debunking quando un’informazione è stata assunta come vera non fa nessun effetto, anzi rinforza le convenzioni di chi ha scelto di aderire a quel tipo di narrazione.

Esempi di misinformation e disinformation nella  guerra israelo-palestinese

La comunicazione del fronte filopalestinese è su questo fronte piuttosto attiva perché gli utenti o gli attivisti fanno tradizionalmente riferimento alla controinformazione che sui social si trasforma in contronarrazione, alimentata anche involontariamente o ingenuamente; questa è quella che chiamiamo misinformation.
Il feed di X ha ospitato molte informazioni rivelatesi poi false. Alcune delle più eclatanti hanno visto come protagonista Cristiano Ronaldo testimonial inconsapevole della causa palestinese, mostrato in più occasioni con la bandiera della Palestina photoshoppata o in un messaggio di sostegno al popolo di Gaza, falsificando un video del 2016 per Save the children rivolto ai bambini siriani. In uno dei casi, invece, un calciatore marocchino che realmente teneva fra le mani la bandiera palestinese ai mondiali 2022 (questa è la foto originale) è stato spacciato per il campione portoghese.
Ma se queste forme di mistificazione sono più o meno riconoscibili da utenti mediamente alfabetizzati dal punto di vista digitale, più complessa diventa la faccenda nel caso di immagini tratte da videogiochi particolarmente realistici (come accaduto). Ancora più complicato è quando deve intervenire Bellingcat (un sito di investigazione Osint, che si basa cioè su fonti aperte – Open Source Intellicence – nato durante il conflitto in Siria per analizzare le fonti aperte e verificare le informazioni) per chiarire che non ci sono prove sull’invio di forniture di armi occidentali dall’Ucraina ai miliziani di Hamas. Si tratta di una notizia, fatta circolare da account legati ad ambienti russi, inquinando così due distinte narrazioni quella relativa alla guerra israelo-palestinese e quella sul conflitto russo-ucraino. In questo caso, gli utenti avrebbero dovuto capire che il report contrassegnato da un logo della BBC era un chiaro esempio di disinformazione. Ma è sempre possibile? Eliot Higgins, il fondatore di Bellingcat, sul suo profilo X  ha dovuto chiarire che “Un falso video della BBC che rivendica un’indagine di Bellingcat mostra che l’Ucraina ha contrabbandato armi ad Hamas grazie agli utenti dei social media russi. Non è chiaro se si tratti di una campagna di disinformazione del governo russo o di uno sforzo popolare, ma è falso al 100%”.

Pallywood e le finte fake-news

C’è chi ha battezzato un tipo di propaganda mediatica finalizzata a demonizzare l’azione israeliana e a creare consenso attorno alla causa palestinese Pallywood, un termine piuttosto connotativo nato dall’unione delle parole “Palestinese” e “Hollywood” . Parliamo del 2000, della seconda Intifada e di alcuni dubbi su foto circolate sui media. Il professore della Boston University Richard Landes ha coniato e reso popolare questo termine nel 2005 con un documentario intitolato “Pallywood: secondo fonti palestinesi”, che esponeva presunti casi di manipolazione dei media operata da palestinesi. Ma oggi Pallywood è un’etichetta in mano alla propaganda israeliana per colpire il nemico anche sul fronte informativo, tentando di minarne la credibilità. Un’azione più raffinata, dunque.

Lo stesso portavoce del primo ministro israeliano Benjamin Nathanyahu, Ofir Gendelman, postando un video su X ha scritto: “I palestinesi stanno ingannando i media internazionali e l’opinione pubblica. NON CASCATECI. Guardate voi stessi come fingono ferite ed evacuazioni dei civili “feriti”, il tutto davanti alle telecamere. “Pallywood è stata beccata di nuovo”. Il video sotto accusa è però il backstage del cortometraggio “The reality”, girato in Libano, e non è chiaro chi sia stato il primo a metterlo in circolo. Quel che è evidente è che Gendelman non ha eliminato il suo post nonostante le numerose repliche con chiari fact checking. Un caso simile a quello su cui si era espressa anche la Reuters e, in Italia, Bufale.net  nel maggio dello scorso anno. Il backstage di Empty Place, ispirato alla storia di Ahmed Manasra arrestato per tentato omicidio a 13 anni, era stato spacciato come un esempio di Pallywood e aveva fatto il giro di certe echo chamber.

In rete hanno ripreso a circolare anche immagini del 2016, scattate ad Aleppo, in Siria, dopo un bombardamento del regime di Assad: una bambina salvata dalla morte e ricoperta di polvere è diventata secondo alcuni account vicini ad ambienti israeliani un altro esempio di Pallywood.
Qui il gioco è molto più sottile e sul filo della finta contropropaganda.
E così mentre l’account ufficiale (sempre su X) dell’Israel Foreign Ministry mette in guardia dalle fake news palestinesi, l’account del governo israliano sbufala una “finta falsa informazione” . E il corto circuito è servito.

Antonella Vicini

Laureata in Lettere, dal 2005 è giornalista professionista. Per anni si è occupata di politica estera. Dal 2015 lavora per una rivista di settore del MIMS (ex MIT). Ha scritto due libri sulle dinamiche della diffusione della disinformazione con Walter Quattrociocchi: Misinformation (2016) e Liberi di crederci (2018). Ma la sua vera passione sono cani, gatti e tutto il resto dell'Arca.

Cosa succede su Instagram?

Articoli correlati