È sempre più frequente, quando si parla di disinformazione, interrogarsi sul ruolo dei social network nella diffusione di notizie non corrette. Una domanda più che lecita, ma non sufficiente a definire perché questi ambienti siano spesso terreno fertile per una comunicazione estremizzata, a volte violenta e poco utile alla comprensione dei fatti.
Non basta addossare la colpa genericamente alle piattaforme social o agli algoritmi per affrontare la questione. La realtà è molto più complessa e gli attori in campo sono numerosi. Uno di questi, come ci spiega il testo a seguire, è il confirmation bias.
Pubblichiamo un estratto di “Polarizzazioni. Informazioni, opinioni e altri demoni nell’infosfera”, il volume firmato da Walter Quattrociocchi e Antonella Vicini, edito da Franco Angeli e uscito nel giugno 2023, in cui gli autori tornano – approfondendoli – sui temi già tracciati nel 2016 in “Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità” (sempre Franco Angeli).
Mare magnum
Quando apriamo un social network, fiumi di contenuti scorrono in un flusso continuo sotto i nostri occhi. In mezzo a questo affollamento, come scegliamo su quali post soffermarci,
quali articoli leggere o che bacheche scorrere? Non è semplice.
Di solito, maggiore è l’offerta più difficile è la selezione. Pensiamo di essere entrati in un negozio, pieno di articoli in vendita. Scegliere quello che più ci piace o più ci serve o che ha un rapporto qualità-prezzo migliore risulta particolarmente faticoso. O usciamo a mani vuote o acquistiamo compulsivamente. Oppure dobbiamo fermarci a ragionare.
Un’operazione che implica però una spesa di tempo ed energie.
E quando siamo di fronte alla vetrina delle informazioni come ci organizziamo? Il nostro cervello si comporta più o meno nello stesso modo. Mette in atto, infatti, una serie di strategie per tracciare una via e ridurre la confusione e il rumore.
Queste strategie sono parte del nostro sistema cognitivo e per amor di sintesi vengono chiamate bias. All’origine del termine pare esserci il francese provenzale “obliquo”, “inclinato”; i bias rappresentano infatti le “inclinazioni” del nostro pensiero.
Al momento la questione bias è stata articolata come una mappa per descrivere alcune tendenze del nostro cervello che si manifestano soprattutto in contesti di decisioni. C’è chi dice che siano frutto della nostra evoluzione quando per sopravvivere abbiamo dovuto interiorizzare delle strategie veloci. Altre teorie, invece, ipotizzano un radicamento più profondo del fenomeno e lo attribuiscono allo stesso funzionamento del cervello.
Non abbiamo ancora una risposta chiara su questo, ma possiamo dire che il confirmation bias, anche noto come pregiudizio di conferma, sarà un nostro fedele compagno di viaggio, quasi un amico che ci guiderà nella comprensione delle dinamiche della selezione delle notizie e delle informazioni (anche se va ricordato che al momento la letteratura scientifica non ha chiarito quali siano e come si articolino i meccanismi che permettono al nostro cervello di orientarsi nel mare magnum dell’informazione).
La strategia cognitiva che più mettiamo in atto quando siamo online è quella di selezionare e accettare le sole informazioni che rispecchiano e aderiscono al nostro sistema di credenze, ovvero al nostro modo di vedere e concepire il mondo. Vedremo tante prove empiriche di queste dinamichenelle prossime pagine.
La nostra mente allontana le informazioni che potrebbero contraddire i nostri punti fermi o – per dirla in modo molto più enfatico – mettere in discussione il nostro mondo, in uno sforzo che punta così all’autoconservazione e al mantenimento della coerenza. Dei meccanismi che intervengono in questo e altri pregiudizi (bias) del cervello umano ha scritto molto bene lo psicologo Daniel Kahneman, vincitore del premio Nobel per l’Economia:
Contrariamente alle regole dei filosofi della scienza, i quali consigliano di verificare un’ipotesi provando a confutarla, le persone (e molto spesso anche gli scienziati) cercano dati che siano compatibili con le loro credenze del momento.
Come è prevedibile ogni scorciatoia prevede, per dirla come Kahneman, un “pensiero veloce”, istintivo e anche meno lucido, da cui possono derivare anche errori e fraintendimenti.
Lo psicologo descrive due agenti, ovvero il “sistema 1” e il “sistema 2”, i quali producono, rispettivamente, il pensiero veloce e il pensiero lento:
La ricerca spontanea di una soluzione intuitiva a volte fallisce, e non vengono in mente né una soluzione esperta né una risposta euristica. In tali casi spesso ci capita di passare a una forma di pensiero più lenta, riflessiva e impegnativa. È il “pensiero lento”del titolo. Il “pensiero veloce” include sia varianti di pensiero intuitivo (l’esperto e l’euristico) sia le attività mentali interamente automatiche della percezione e della memoria, le operazioni che ci permettono di sapere che c’è una lampada sul nostro tavolo o di ricordarci il nome della capitale della Russia.
Le centinaia di pregiudizi del cervello hanno, infatti, un ruolo specifico nel capitalizzare le energie della mente; del resto sarebbe impossibile prestare attenzione a tutto nello stesso modo. Pensiamo a quello che è successo nel negozio. È un meccanismo economico e di salvaguardia molto utile.
Vista da questa prospettiva la nostra parte irrazionale acquisirebbe un ruolo particolarmente importante.
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Il pregiudizio di conferma, come altri meccanismi della nostra mente, sembrerebbe rispondere proprio a queste dinamiche. E se da un lato è difficile indagarne i meccanismi, dall’altro è ancora più difficile ammettere di essere preda dei bias.
Tornando agli ambienti virtuali, è qui che il pregiudiziodi conferma trova un terreno particolarmente fertile. C’è da dire però che non è solo colpa nostra. Non tutto dipende, infatti, soltanto dal nostro sistema cognitivo: in questo processo intervengono anche elementi strutturali tipici dei luoghi digitali come cookies, fingerprinting e algoritmi. I primi sono, in realtà, il pane quotidiano di chiunque utilizzi siti internet.
Grazie a loro, piccoli pezzi di informazioni sulle scelte e le preferenze degli utenti possono essere memorizzati al fine di fornire contenuti specifici (e molto preziosi per vendere pubblicità). I cookies, per fare un esempio pratico, hanno un ruolo anche quando troviamo pubblicità tagliate su misura dopo aver cercato uno specifico articolo sui vari marketplace.
Con loro anche i motori di ricerca svolgono una funzione di filtro e orientamento nella moltitudine di fonti online. I risultati sono mostrati così attraverso un indice strutturato sulla base dei documenti più popolari e di ciò che potrebbe piacere al singolo utente. Per questo motivo ognuno di noi otterrà risposte differenti immettendo nella barra di ricerca le stesse parole chiave. A ricerca uguale non corrisponde, dunque, uguale risultato.
A essere utilizzato ancora di più dei cookies è il fingerprinting, che crea una vera e propria impronta digitale profilando l’utente in base all’hardware, al software, ai componenti aggiuntivi e, persino, alle preferenze che vengono utilizzate per mostrare argomenti personalizzati.
Gli algoritmi – altro termine ben noto – agiscono invece cercando di massimizzare il comfort dell’utente online. E che cosa c’è di meglio di trovare nel minor tempo possibile contenuti in linea con i nostri gusti? E torniamo qui, ancora una volta, al negozio pieno di articoli e offerte dove siamo entrati a inizio capitolo. Questi strumenti tipici del web svolgono un ruolo chiave nella creazione di una realtà virtuale che non fa altro che rispecchiare i nostri gusti. Fungono da specchio che sostanzialmente riflette la nostra immagine. Si origina, quindi, un circolo vizioso, in cui ognuno ha la possibilità di scegliere quali news feed, persone e influencer seguire, mentre i social network propongono all’utente contenuti personalizzati, riducendo il ventaglio delle cose a cui siamo esposti.
Il rischio è quello di entrare in un mondo ritagliato su misura, apparentemente rassicurante, dove i cosiddetti algoritmi di raccomandazione portano gli utenti, nonostante la vastità di possibilità offerte da internet, a definire la loro echo chamber e a rinchiudersi in piccole tribù di utenti simili fra loro.